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Ci fu un tempo in cui l’Italia seppe dire un secco no agli Stati Uniti, senza arretrare di un millimetro. Parliamo di quarant’anni fa, quando prendere una decisione simile in un contesto mondiale ancora diviso in due blocchi e in piena Guerra fredda non era affatto facile né scontato.

La notte tra il 10 e l’11 ottobre 1985 si consumò la dura contrapposizione tra Italia e Stati Uniti nella gestione della crisi legata al sequestro della nave da crociera Achille Lauro.

Ripercorrendo in sintesi gli eventi: il 7 ottobre di quarant’anni fa l’imbarcazione battente bandiera italiana viene dirottata da quattro terroristi palestinesi, mentre si trova al largo delle coste egiziane.

L’emergenza è gestita, da parte italiana, dal presidente del Consiglio Bettino Craxi insieme ai ministri degli Esteri Giulio Andreotti e della Difesa Giovanni Spadolini. In un primo momento si pensa a un’azione di forza per la liberazione degli ostaggi, ma alla fine prevale la linea della diplomazia, che ottiene i risultati sperati, grazie alla mediazione delle autorità egiziane e del leader dell’Olp Yasser Arafat. Quest’ultimo invia due negoziatori, che ottengono la liberazione della nave e l’approdo della stessa in Egitto. In base all’accordo raggiunto per la salvezza degli ostaggi, ai dirottatori viene concesso di raggiungere la Tunisia, insieme ai negoziatori su un volo EgyptAir sul quale sono presenti anche alcuni agenti egiziani.

Tuttavia, due giorni dopo gli accordi, si scopre che una persona è stata uccisa dai terroristi: il cittadino americano Leon Klinghoffer, scelto come vittima perché, oltre ad essere americano, è di religione ebraica.

Gli americani intercettano, quindi, l’aereo con i terroristi e gli impongono di atterrare nella base Nato di Sigonella, in Sicilia.

Il governo italiano viene informato delle intenzioni americane solo mentre l’operazione è già in atto: da qui il braccio di ferro tra i due Paesi. Gli Stati Uniti vogliono prelevare i terroristi e processarli in America. Il premier Craxi ribadisce la competenza italiana, nel momento in cui l’aereo è atterrato a Sigonella, oltre al fatto che i reati sono stati commessi su una nave italiana.

L’azione che segue vede i militari della Vam (Vigilanza aeronautica militare) e i Carabinieri schierarsi attorno all’aereo, per impedire a chi è sopra di scendere, ma anche ai militari americani di salire. Le truppe Usa (reparti della Delta Force) circondano a loro volta l’aereo, per poi essere circondati da un altro cordone di militari italiani. L’immagine dei tre cerchi concentrici, immortalata in una foto, è emblematica dello scontro in atto, ma anche della fermezza che l’Italia riesce a mantenere in quel frangente drammatico. 

Difficile immaginare un episodio simile oggi, in un contesto geopolitico internazionale profondamente cambiato, con un’oggettiva e progressiva perdita di sovranità decisionale da parte dei Paesi europei.

Inoltre, la vicenda va interpretata, per comprenderne realmente la portata, evitando le facili letture, che sono essenzialmente due: da una parte la visione eccessivamente nazionalista, per cui l’evento rappresenta l’ultima ribellione contro gli Usa; dal lato opposto le critiche di essersi arresi, o comunque essere stati troppo blandi, rispetto al terrorismo.

La gestione della crisi è, infatti, l’esempio di come un Paese sovrano e forte della propria identità sia in grado di affrontare le emergenze.
Senza esasperazioni, senza grilletto facile, ma con la forza della diplomazia per raggiungere l’obiettivo: salvare vite umane. E, soprattutto, senza ingerenze.

Il governo italiano non poteva lasciare che sovranità e diritto internazionale venissero calpestati da un’azione militare sul proprio territorio, soprattutto dopo aver percorso con esito positivo la via diplomatica per ottenere la liberazione dell’Achille Lauro.

Non poteva nemmeno permettere che la propria credibilità internazionale venisse compromessa e indebolita: all’epoca stava lavorando per essere protagonista sulla scena internazionale, proponendosi come mediatore tra il mondo occidentale e il vicino oriente.

Allo stesso tempo, Craxi e i suoi alleati di governo non volevano rompere con gli Usa, come ribadisce successivamente lo stesso leader socialista, la cui versione viene confermata dalla Casa Bianca, con le rassicurazioni del presidente Ronald Reagan di aver compreso la posizione italiana.

Certo, gettare acqua sul fuoco era nell’interesse di entrambi, l’alleanza tra i due Paesi rimaneva strategica. Non furono momenti facili da gestire.

D’altra parte, è comprensibile la reazione americana, giustificata dalla volontà di ottenere giustizia per la morte del loro connazionale.

Ma anche su questo punto, il governo italiano non ha mai avuto intenzione di offrire uno scudo ai quattro terroristi, i quali, affrontarono la giustizia del nostro Paese, venendo condannati e scontando la loro pena.

Uno dei due negoziatori, invece, sarebbe successivamente risultato coinvolto nel sequestro, ma l’Italia entrò in possesso delle prove contro di lui solo quando era ormai già lontano dal nostro Paese e le richieste di estradizione furono sempre respinte.

Ripercorrendo i fatti, ecco cosa scrive lo stesso ex Presidente del Consiglio Craxi: «A mia volta presentavo la nostra posizione in diritto e, cioè, che i reati erano stati commessi in acque internazionali, su una nave italiana, e pertanto dovevano essere configurati come atti criminosi perpetrati in territorio italiano. Aggiungevo che il Governo italiano non avrebbe potuto sottrarre, con proprie decisioni, alla competenza dei Tribunali italiani i responsabili del dirottamento dell’Achille Lauro e degli atti di violenza commessi a bordo» (Bettino Craxi, La notte di Sigonella, a cura della Fondazione Craxi, pag. 95, Mondadori, Milano 2015).

Viviana Meschesi e Valeria Moroni, nella Prefazione del libro sopra citato, spiegano: «La prima convinzione del leader socialista fu quella che non dovesse passare l’idea di un abbandono della causa palestinese da parte europea, lasciando così ai soli Stati Uniti l’arbitrio di introdurre nei rapporti internazionali il principio della forza anziché quello del diritto. La seconda fu la considerazione che l’eventuale asservimento dell’Italia, qualora avesse consentito all’oltraggiosa violazione della propria sovranità nazionale, venendo oltretutto meno all’impegno con Arafat e Mubarak, avrebbe avuto conseguenze nefaste. Innanzitutto sul processo di pace. L’Italia e l’Europa avrebbero perso qualsiasi credibilità e autorevolezza di attori internazionali e di mediatori nel conflitto israelo-palestinese. E quale credibilità avrebbe avuto l’Italia che proprio in quegli anni aveva cercato di ritagliarsi un ruolo diplomatico e di player internazionale in favore del passaggio da una contrapposizione Est-Ovest, da cui non era estraneo il Mediterraneo, a una maggiore collaborazione tra i due sistemi?».

Tirando le somme oggi, a distanza di quattro decenni, Sigonella rappresenta non solo un episodio di ferma difesa della propria sovranità, ma anche la tutela del ruolo che l’Italia stava svolgendo sulla scena internazionale: essere soggetto attivo e centrale nelle vicende del Mediterraneo, rimanendo alleato fedele dei Paesi Nato, America in primis, senza accettare, tuttavia, una posizione di sudditanza.

Oggi che il sovranismo è entrato nell’agenda politica italiana ed europea delle forze di destra, è interessante ricordare, ma soprattutto analizzare in maniera lucida e non retorica, questa pagina di storia. Dove interprete di un sovranismo ante litteram (passatemi il termine) fu il leader del Partito socialista italiano, nell’ambito di un governo di centrosinistra.

Una lezione per chi non crede che i valori della sovranità nazionale – e potremmo dire della sovranità europea – possano essere patrimonio condiviso di tutti gli schieramenti.